Salvarsi da soli. Giorno ottantadue

Giorno Ottantadue, salvarsi

Caro Diario,
si scrive così, no?
Sappi che questo non è il tuo vero nome, ma questa lettera è per te che stai leggendo.
E non voglio salvarti. Voglio viverti e solo tu puoi decidere se farlo, per quanto e come. Io posso stringerti la mano, forte e piano, ma tu puoi lasciare la presa quando vuoi. Tu ti salvi, io ti vivo. Tu vivi, io mi salvo.

Oggi mi sono svegliata e mi sono sentita vinta.

Come se stanotte avessi combattuto una guerra e avessi perso. Miseramente. Ma contro chi?
Sì, lo ammetto. Riconosco di essere una brava ascoltatrice. Io ascolto gli altri. Li ascolto, ascolto e li ascolto ancora. Un oceano di parole, un infinito di suoni.
Mi sento come una vecchia cabina telefonica a gettoni, di quelle che vedi in giro per la città e pensi “ma chi le usa ancora?” ignorando la loro seconda vita, quante vite hanno salvato. Un tempo sono state un rifugio, un modo per non sentirsi lontani… adesso sono un posto dove stare al riparo. Dal freddo, dalla gente. Dal freddo della gente.

E poi mi sento una stanza di un confessionale, meglio se lo stanzino di un analista – magari anche bravo. Ché i confessionali dei luoghi sacri non so neanche che forma abbiano e non voglio scoprirlo.
O come una di quelle cabine che vanno tanto di moda oggi, quelle contro la Rabbia. Ne avrai sentito parlare, no? Sono stanze vuote e insonorizzate dove ti puoi chiudere e urlare e puoi lanciare oggetti che ti offrono dopo una lauta ricompensa. Insomma, uno di quei luoghi in cui puoi sentirti salvato, libero dal mondo ché tanto lì dentro siamo tutti uguali. Tutti preda dell’Ira che ti cambia, della Vita che ti segna, della Morte che finisce e ti sfinisce, dell’Amore che ti condanna, dell’Amicizia che ti abbandona, dell’Io che non vuole saperne di andare avanti e di trovare il bello.

Siamo tutti pazzi. Siamo tutti stanchi.

Sì, alle volte mi fai sentire così. O mi sento io così perché a parlare non sono brava.
Ma non sono uno di quegli oggetti che schianti. Sono quella parete che ti protegge, facendosi male; quel muro insonorizzato che attutisce i colpi, ma li sente tutti e sono il vetro che si rompe quando ci scagli contro tutto il tuo dolore, ma non ti colpisce. Non ti graffia.
Io non ti colpisco. Non ti graffio. Non ti lascio sanguinare.
Sono piuttosto una spugna di mare. Quelle cose che un po’ ti impressionano e che pensi siano solo erbacce da estirpare per lasciare spazio ai coralli, la parte bella del mondo sommerso. Una spugna che assorbe, assorbe e ancora assorbe. Sembro inutile, ma è solo merito mio se le acque sono limpide e i coralli così coralli. E belli e colorati e vivi. Ma, ormai, nessuno più bada al mare, alla sua salute, alle sue bellezze. È solo un altro posto da colonizzare, rendere a nostra immagine e somiglianza.

Ma non siamo tutti brutti.

E prima o poi finirai gli oggetti da rompere, la voce per urlare. Finirai le lacrime, le parole brutte, quelle di conforto. Non avrai più sogni né incubi. Smetterai di cercare qualcuno che ti salvi.
Sentirai la campanella suonare, segno che quell’ora è finita: lo stanzino non è più tuo. E i gettoni… i gettoni sono finiti prima di te.

E io non voglio essere tutto questo. Io non voglio salvarti. L’amore non ti salva, non ti fa galleggiare, non ti fa volare! L’Amore per Te Stesso ti salva. Nessuno può farlo se non tu.
Per questo Non Voglio che mi ringrazi. Perché non ti ho salvato.

Stanotte l’unica persona che ho salvato sono stata io.
Perché, vedi, se io ti salvo poi devi farlo anche tu.
E non mi hai mai salvata_

“Lascio il posto d’onore agli sbagli e ai lati tremendi
che ho.
Riesco a brillare per dieci secondi più forte del sole,
poi mi spegnerò”
Fotocamera, Giorgieness